“Vedere un mondo in un granello di sabbia”, da una poesia di Blake, è un verso che spesso ‘lavora’ in me. Mi restituisce diversi spunti e insegnamenti e, soprattutto, mi ricorda l'importanza di attribuirsi valore e di rivolgere a se stessi uno sguardo sempre amorevole, specialmente quando siamo sopraffatti dagli avvenimenti esterni e ci sembra che la nostra esistenza, alla fine, non sia granché rilevante.
In ogni granello c'è un mondo intero. Con questo sguardo nel cuore ho iniziato a riconoscere quei momenti di apnea che, disseminati nella mia giornata, stavano aprendo grosse falle in uno scafo che mi sembrava tutto sommato piuttosto solido, il mio.
A volte, semplicemente, non ci concediamo di respirare a fondo. E lo dice una che ha edificato su una colonna d’aria la professione di una vita.
Anche in questo momento, cercando le parole più efficaci per trasferirmi in uno scritto, trattengo un poco il fiato, illudendomi inconsciamente che, in questo modo, il mio mondo delle idee riesca a riversarsi incorrotto nelle parole.
Io, per esempio, non respiro quando mi alzo dal letto, la mattina presto, per paura che nella confusione del risveglio qualche osso, nervo o muscolo non si allinei perfettamente e mi impedisca di arrivare fino al bagno.
Quando vado a casa dei miei genitori, come entrassi in un palazzo abbandonato e decadente, - è stata anche la mia di casa in diverse fasi della vita, non solo nell'infanzia- sto in apnea per non sentire quegli odori che, sferrandomi un gancio allo stomaco, spazzano via incuranti ogni conquista di donna, per lasciarmi piccola e sola come un cappuccetto rosso qualsiasi.
Se ascolto un TED profondo e appassionante, un discorso di Michelle Obama o la storia di qualcuno che racconta di ferite aperte e doloranti, mi scopro con il respiro altissimo e quasi fermo, il diaframma che mi ha abbandonato e le lacrime compresse in una minuscola striscia che mi attraversa la gola.
Quando sblocco il telefono per la duemillesima volta invece di cercare pace in un libro, quando le parole giuste al momento giusto proprio non mi si vogliono presentare, quando l’emozione mi annebbia la vista e paralizza il diaframma, è apnea totale.
Non respiro per non sentire dolore, non tanto quello fisico, che credo di non conoscere ancora veramente, ma quello che a volte sembra volerti appendere l’anima a un chiodo.
Sulla bacheca dietro la mia scrivania ho appeso quest’estate un segnalibro con la scritta ‘Prenditi un momento.’ Con il punto alla fine della breve frase, il punto fermo, come si chiamava alle elementari. C’è una cura che mi piace. Dal punto di vista della sintassi poteva pure starci un punto esclamativo, ad ulteriore promozione dell’imperatività della frase, ma il punto fermo è sincero e definitivo e non ammette facili entusiasmi, i più soggetti ad essere disattesi.
Mi prendo un momento e respiro. C’è mezzo mondo che non sta respirando, l’altra metà è occupata a tappare la bocca agli altri e alla Terra stessa.
Butto fuori. Inspiro. Butto fuori a lungo. Inspiro quadrato, triangolare, circolare; non penso, è sopravvivenza spiccia. Butto fuori. Dentro. Fuori. Sto respirando? Sono qui, sono io.
Quando so prendermi cura di me, allora divento utile nei miei dintorni umani, animali e vegetali e...via, via, esponenzialmente, divento generativa e salutare per il mondo. Il mondo è tutto dentro questi due polmoni; non li ho mai visti davvero, ma me li immagino rosa e volenterosi, infinitamente capienti, mai pigri, volutamente lontani dal gran casino della pancia, grazie al patto stretto alla nascita con quell’incontrollabile del diaframma. Se respiro a fondo, e consapevolmente e con gran ordine, il mondo può anche uscire da questa bocca mia, magico e sonoro, ritmico ed espansivo.
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